Dagli Shardana ai ribelli della Barbagia, breve studio sulla tradizione del “mustazzu” nell’isola dei quattro mori
Esistono un’infinità di stereotipi sulla Sardegna, come quello che dipinge sul volto dei locali (soprattutto maschi, ma anche donne) un bel paio di baffoni. Un argomento che prima di essere trattato nel dettaglio merita almeno alcune dovute precisazioni.
I sardi dovrebbero essere abituati o quantomeno dovrebbero aver sviluppato nel tempo una sorta di armatura che li protegge da quella serie di cliché che li vede loro malgrado protagonisti. Questo mucchio di idiozie è figlio dell’ignoranza ed è ampiamente smentito dalla realtà dei fatti. Ad esempio non convince proprio il luogo comune secondo cui le donne sarde sarebbero tutte brutte e pelose – alzi la mano chi non si è fatto una pugnetta sulla Palmas o sulla Canalis – e anche sullo stereotipo dei pastori sardi che si accoppiano con le pecore ci sarebbe molto da ridire anche perché, come ricordato in precedenza, la Sardegna è grande produttrice di gnocca locale e soprattutto, dato per vero l’assunto che i pastori montano i loro ovini, in una nazione come la nostra per antica vocazione dedita alla pastorizia, almeno metà delle regioni italiane dovrebbe essere popolata da sordidi copulatori di bestiame (dalla fuga di cervelli alla figa dei caprini il passaggio non è poi così scontato).
Questa lista di stereotipi sembra tuttavia dettata dall’invidia – degli italiani e degli altri “popoli d’oltremare” – verso gli abitanti di quest’isola dalla bellezza sconvolgente, unica nel suo patrimonio paesaggistico, naturalistico, storico e culturale e potrebbe originarsi anche nell’impavida resistenza che i locali hanno opposto agli invasori: fenici, cartaginesi, romani, visigoti, bizantini, mori, pisani, genovesi, aragonesi, spagnoli, francesi e in ultimo piemontesi. Nel corso della storia un po’ tutti gli stati che si affacciano sul mediterraneo si sono infatti a più riprese succeduti nel tentativo (mai completato a livello territoriale men che meno sul piano culturale) di assoggettare la Sardegna.
Si potrebbe insinuare che questi cliché siano stati utili alla propaganda piemontese dopo l’annessione dell’isola al Regno Sabaudo (la cosiddetta Fusione Perfetta del 1847) screditando così gli abitanti dell’isola e diffondendo sul continente lo stereotipo del sardo incolto, forastico, ignorante, cocciuto e quindi irsuto, barbuto ed eminentemente baffuto.
Il popolo sardo soprattutto nei primi anni seguiti all’annessione, avendo perso i propri istituti d’autonomia, vessato dalle angherie dell’esercito ed esasperato dal nuovo regime imposto, ha cercato di opporsi ai regnanti con veri e propri moti popolari successivamente sfociati, per mancanza di mezzi e forse di coesione, nel banditismo. C’è da dire che effettivamente molti celebri rivoltosi, datisi alla macchia per opporsi alle angherie dell’esercito occupante, erano effettivamente dotati di baffi di un certo spessore si pensi a Diego Doneddu, Gabrile Murgiolu e a Giò Pinna (solo per citarne alcuni).
Tuttavia la demonizzazione del baffo in chiave anti insurrezionalista in casa Savoia assume presto la traiettoria di una zappa sui piedi considerando che i primi regnanti dell’Italia Unita erano fieri alfieri del mustacchio (Vittorio Emanuele I ed Umberto I).
Le origini del baffo sardo sembrano dunque avere radici molto più antiche e si potrebbero far risalire al periodo dell’occupazione romana dell’isola.
Senza entrare troppo nel dettaglio (tralasciando i complicati eventi che intorno al 230 a.C. portarono la Sardegna dall’area d’influsso cartaginese a quello romano) si potrebbe sostanzialmente riassumere che sotto la dominazione di Roma l’isola era divisa in due parti: la Romania, (che comprendeva la costa occupata dalle legioni e dai coloni), e la Barbaria (le regioni centrali caratterizzate da aspre catene montuose occupate dalle tribù sarde che per sfuggire al giogo di Roma si ritirarono verso il nucleo impervio dell’isola preservando la propria autonomia).
I romani, come abbiamo avuto modo di ricordare in un precedente articolo, erano fieri assertori della rasatura e avversavano i portatori di peli facciali associandoli alle popolazioni barbare che premevano sul limes (il sangue versato dalle legioni contro i baffuti galli non era stato dimenticato), o agli “effemminati” e “molli” greci.
In questo periodo d’occupazione non è da escludere che la popolazione autoctona, decise di lasciarsi crescere barba e baffi (probabilmente alcune tribù sarde, specie nell’entroterra, ne erano già munite) per rimarcare meglio anche sotto l’aspetto fisico la distanza che li separava dai nuovi conquistatori. Avendo di fatto sostanzialmente abbandonato le “comodità” della costa, i sardi ribelli si dovettero adattare ad uno stile di vita più duro dovendosi nascondere nelle grotte e di fatto imboscandosi negli impervi territori delle regioni centrali per sfuggire alle rappresaglie e molti di loro dovettero “convertirsi” allo stile di vita dei montanari (non siamo purtroppo a conoscenza di studi sull’incidenza di barba e baffi nelle culture delle montagne, argomento che meriterebbe senz’altro più di un semplice approfondimento).
Da barbaria a barbagia
Il termine Barbaricino o Brabaxinu che designa anche attualmente gli abitanti della Sardegna centrale e montana, deriva direttamente da barbaria, vocabolo utilizzato dai romani per indicare le stesse regioni che anche oggi più o meno comprendono la subregione sarda denominata Barbagia.
Il termine Barbarus non ha tuttavia origini latine ma è di derivazione greca venendo dal raddoppiamento onomatopeutico del suono bar (cfr. babbaleo o balbo) e per gli antichi greci stava ad indicare tutte quelle popolazioni che non parlavano la loro lingua. Lo stesso termine, presto adottato dai romani, ha contraddistinto anche per loro tutti quei popoli non latinizzati o meglio fuori dalla giurisdizione di Roma e che, in diversi casi – ironia della sorte -, erano per tradizione fieri portatori di barba e mustacchi.
Per assonanza, nel corso del tempo e grazie a compenetrazioni linguistiche allogene, il termine barbaro ha finito per confondersi con quello di portatori di barba o barda (termine che ha origini latine e, solo per semplificazione, anche “gallo-nordiche”) ed è forse per questo che, nel tardo impero e dopo la conquista visigota, quelle impervie regioni della Sardegna, dominate da popoli irsuti, indomabili e dalla lingua incomprensibile, hanno alla fine preso la denominazione di Barbagia.
Suggestioni pelose tra Shardana e civiltà nuragica
Se è vero che la Sardegna negli ultimi millenni è stata preda delle mire espansionistiche delle civiltà mediterranee, nel periodo arcaico potrebbe essere stato vero l’inverso ovvero che l’isola sia stata punto di partenza per diverse incursioni “piratesche” verso il continente da parte degli stessi sardi. Alcuni studiosi assimilerebbero infatti le popolazioni autocnone agli Shardana, o Sherdana, (anche Sherden) che, seguendo le linee guida di alcuni celebri esperti del settore come Massimo Pittau, Antonio Taramelli e Massimo Lilliu (dai quali abbiamo appreso alcuni importantissimi elementi per il presente studio), costituivano lo zoccolo duro dei cosiddetti “popoli del mare”, sovente dediti alla guerra e al saccheggio. Le loro incursioni, datate secondo diverse fonti attorno al II millennio a.C., flagellarono le coste del mediterraneo ma l’origine etnica di questi popoli è ancora oggetto di dibattito. Interessante rilevare come nella scrittura geroglifica egiziana caratterizzata da ideogrammi, questi stranieri dediti alla guerra sono indicati come ŠRDN (evidente richiamo alla nomenclatura della Sardegna) e che anche nella lingua accadica queste stesse popolazioni erano indicate come Šërëdën, o Šërdën, altro vocabolo che richiama in maniera piuttosto palese la nomenclatura dell’isola dei quattro mori.
Queste genti misteriose, divennero le guardie personali di Ramses II che decise saggiamente di assoldarne una guarnigione dopo una decisiva vittoria in uno scontro navale nel mediterraneo. Questi stessi Shardan, che furono i più acerrimi nemici e in seguito i più fidati alleati dei faraoni, nelle rappresentazioni geroglifiche egiziane presentano chiari accenni di barba e baffi. A richiamare la Sardegna, insieme al bagaglio pilifero oggetto di questo studio, anche lo stesso corredo guerriero che sembra palesemente rievocare le statue del periodo nuragico caratterizzate da elmi cornuti, spade a lama triangolare e scudi circolari.
In questa sede è utile menzionare la sorgente sacra (o pozzo sacro) di Genn’e o Genna Mustazzu, risalente al periodo nuragico, e collocato geograficamente nella zona a nord di Iglesias. Il toponimo tradotto dal sardo significa letteralmente “porta dei baffi” e fu un luogo sacro legato ai rituali di fertilità in onore della Dea Madre probabilmente connesso ai cicli lunari. Un’ardita ipotesi – che ci permettiamo di formulare pronti a ricevere gragnuole d’insulti dagli esperti del settore – potrebbe collegare il toponimo a particolari momenti dell’orbita lunare in quanto il satellite della terra, sia in fase crescente che fase calante, forma il tipico profilo a mezzaluna che nell’immaginario di queste antiche popolazione potrebbe essersi trasformato in una sorta di baffo celestiale.
I baffi nei detti e nelle tradizioni popolari dei sardi
Nella lingua sarda esistono alcuni interessanti detti popolari sui baffi che collegano questo attributo pilifero al coraggio. Ad esempio quando in dialetto si parla di uomo o donna coi baffi (“Femina in mustazzos” “Omine in mustazzos” o “de mustazzos”) si fa riferimento a persone dotate di coraggio – o virilità più in generale – e quindi l’attributo pilifero (più spesso sul piano metaforico) è visto in accezione positiva. Nella lingua sarda il termine “mustazzos” è dunque sinonimo di audacia e forza d’animo ed infatti, per un’azione eroica che richieda un certo bagaglio di arditezza e sangue freddo si sente spesso dire “A fagher cussu bi cheret mustazzu (o mustazzos)” (trad. “A far questo ci vuol coraggio”). In questo caso sembra evidente il riferimento allo stesso “cuor di leone pilifero” degli indomabili guerrieri Sherdana e dei loro discendenti barbaricini che nel tempo si sono opposti a tutte le invasioni straniere.
Tuttavia nel sardo non sempre il baffo assume connotazioni positive come del resto non tutti i portatori di mustacchi sono coraggiosi: “Non todu sos mustazzudos sunt coraggiudos” e soprattutto la saggezza popolare suggerirebbe di tenersi lontani dalle donne baffute, testosteroniche, battagliere, audaci e dunque poco disposte alla conciliazione, concetto chiaramente espresso nel proverbio “Femina mustazzuda, femina mala“…
A Cagliari esiste inoltre un curioso detto che recita “a mustazzu stampaxinu, femina biddanoesa“. Tale frase ha origini nella topografia della città, divisa storicamente nei quartieri di Castello, Villanova, Stampace e La Marina.
Gli abitanti di Stampace (“stampaxini”) erano considerati delle teste calde (e quindi dei “mustazzi”) ma proprio per la loro audacia erano particolarmente ammirati dalle donne di Villanova (le “biddanoesi”), che invece erano rinomate per la loro grazia e femminilità e dunque la saggezza popolare vedeva nell’unione tra gl’indomiti stampacini e le belle villanovine una perfetta formula di felicità matrimoniale (vd. Mustazzu stampaxinu, femina biddanoesa. Raccolta familiare di detti cagliaritani di Bruno Moreddu).
Sempre a Cagliari lo stesso santo protettore della città, Sant’Efisio, è dotato di baffi. Il martire cristiano imprigionato sotto Diocleziano e ucciso a Nora dopo la sua conversione, è venerato nel capoluogo sardo per averlo liberato dalla peste il 1° maggio del 1656 e lo stesso giorno, ininterrottamente nel tempo dalla stessa data del miracolo, è portato dai cagliaritani in processione (la più lunga d’Europa, oltre 80 km di tragitto) ed è conosciuto popolarmente come “su mustazzudu” (il baffuto).
Nelle sue rappresentazioni statuarie il santo, che ad Antiochia è venerato con il nome di Elia, è infatti portatore di uno stiloso baffo alla spagnola (rivolto verso l’alto), ed è uno dei pochissimi “santi hipster” venerati in seno alla chiesa cattolica. Proprio questo mustacchio, accompagnato da un non meno stiloso pizzetto, tradisce le origini bizantine/orientali di questo martire il cui culto è particolarmente importante nella chiesa ortodossa (nel culto cattolico i santi baffuti si contano sulla punta delle dita mentre ad oriente sono diversi i santi dotati di mustacchi). Non è un caso inoltre che una delle chiese erette in onore del Santo, attraversata dalla celebre processione del 1° maggio, si trovi proprio a Stampace che, come accennato in precedenza, a Cagliari è il “quartiere dei baffuti” (pare che il santo sia stato incarcerato da queste parti prima del martirio).
Il contraltare pagano e baffuto di Sant’Efisio è rappresentato da Su Bundhu o Su bundu, maschera del carnevale di Orani che ha origini nelle tradizioni contadine della zona. La rappresentazione di questo spirito ha sembianze luciferine, corna appuntite, viso dal colore rosso e baffi e pizzetto canuti. Sebbene dietro questo simulacro vi siano anni di demonizzazione del paganesimo da parte dei cristiani, è interessante rilevare come i baffi di questo spirito ancestrale siano rivolti verso il basso facendo in qualche maniera da contraltare manicheo al “manubrio” rivolto al cielo di Sant’Efisio.
Dal momento che il su bundu è ancestralmente collegato con la semina, la sua maschera rappresenta i tre soggetti direttamente coinvolti in questo momento fondamentale della vita contadina: il vento – nella nominazione stessa della maschera – raffigura infatti il fecondatore del mondo vegetale o meglio la forza o soffio vitale che genera il tutto, il bove che traina l’aratro – presente nella maschera con l’attributo delle corna – è il fecondatore del mondo animale; mentre l’uomo è il portatore del seme umano e il protagonista stesso della semina.
I prominenti mustacchi bianchi rivolti verso il basso potrebbero anche prendere il sembiante antropico del fallo, sorta di membri virili proiettati alla germina di madre terra pronta ad accogliere il seme fecondo. Questi mustacchi luciferini rafforzano dunque nell’insieme questa antica messa in scena propiziatoria. E’ probabile inoltre che anticamente i baffi facessero già parte del corredo di Su Bundu, sembra infatti improbabile che l’influsso cristiano abbia aggiunto questo attributo pilifero alla maschera e proprio questo dettaglio induce a pensare che le popolazioni della zona fossero già largamente dotate di mustacchi sin da tempi remoti.
Vale la pena menzionare anche la maschera dell’is corongiaus di Laconi, piccolo paesino dell’oristanese che, alla vigilia della festa di “Sant’Antoni ‘e su fogu” del 16 gennaio, inscena nelle strade del paesino una rappresentazione della lotta dell’uomo con le le forze ferine della terra. In quest’occasione si assiste alla sfilata di figuranti coperti da maschere di sughero con baffi e barba, lunghi nasi prominenti e corna caprine.
Baffi sardi famosi
Se negli ultimi tempi i baffi sono entrati nell’immaginario collettivo come crisma essenziale dell’ecumene sardo si deve anche alla Gialappa’s Band e al trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo. Dal 1994 al 1997 nel corso della trasmissione di Italia 1 “Mai dire Gol”, Giovanni Storti interpretava i panni di Nico, un tifoso del Cagliari che riproduceva in qualche maniera tutti quegli stereotipi sul mondo sardo, proponendo una lingua incomprensibile ed educando a suon di “Ajò porca troia” le masse televisive che soprattutto da quel momento hanno iniziato ad aggiungere al sardo il suo imponente bagaglio peloso.
Eppure in tutta la storia italiana sono forse più famosi i sardi sprovvisti di mustacchi, si pensi per quanto riguarda la politica a Francesco Cossiga, Enrico Berlinguer, Antonio Segni ed Antonio Gramsci o allo scrittore Giuseppe Dessì o ad un volto glabro così popolare nel mondo dello sport come quello del calciatore Gianfranco Zola insieme al più attempato collega Gigi Riva, mentre anche il piccolo schermo ha avuto ed ha i suoi sardi dal volto candidamente rasato come il compianto giudice Santi Licheri di Forum.
Ed invece sono i baffi ad entrare prepotentemente nell’immaginario collettivo che accompagna la visione del sardo tout court e del resto non sono poche le celebrità irsute provenienti dall’isola dei quattro mori come il caratterista Tiberio Murgia, che per uno strano scherzo del destino è finito ad interpretare quasi sempre ruoli da baffuto siciliano (sui profondi contatti, anche baffuti, tra le due maggiori isole d’Italia si potrebbe scrivere un libro) e che come firma inconfondibile issava un irresistibile fiammifero. Anche il pluripremiato attore Amedeo Nazzari, che fu una baffuta icona del cinema in bianco e nero, era dotato di un curatissimo baffetto a fiammifero e più recentemente viene in mente il baffone spiovente del comico oristanese Benito Urgu. Altre eminenti figure baffute si sono fatte ambasciatrici dell’epopea del tappetino sardo si pensi al poeta Antonio Casula, allo scrittore Salvatore Niffoi o allo scultore Francesco Ciusa. Fioccano profili irsuti dalla terra dei nuraghe anche nello sport come i calciatori Pietro Paolo Virdis e Luigi Piras ma non mancano esempi anche nel mondo della politica italiana vedi Pietro Mastino ed Emilio Lussu. Ma forse il sardo baffuto più rappresentativo, l’uomo che assomma su di sé tutta la Weltanschauung irsuta della Sardegna è l’indipendentista Salvatore “Doddore” Meloni. Passato a miglior vita il 5 luglio scorso dopo 50 giorni di carcere e altrettanti di digiuno contro la sua detenzione per reati fiscali (si rifiutava di pagare le tasse allo stato italiano che non riconosceva), era dotato di un poderoso paio di candidi baffoni che caratterizzavano il suo viso da indomito combattente per la causa sarda.
Il suo sogno era quello di liberare la sua terra per condurla alla secessione e negli anni ’80 si mise a capo di un tentativo di colpo di stato che gli fruttò l’arresto e ben 9 anni di carcere diventando l’unico italiano condannato per cospirazione contro lo Stato. Recentemente aveva occupato anche l’isola di Maldiventre testa di ponte o punto di partenza per l’indipendenza dell’isola. Un rivoluzionario votato alla resistenza che non si è mai vergognato delle sue radici e che si è battuto orgogliosamente fino all’ultimo momento, il Bobby Sands sardo, un uomo coraggioso, un omine in mustazzos.
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