Dai tempi di Domenico Modugno non veniva premiato un mustacchio di questo spessore: breve retrospettiva sui baffi che hanno conquistato l’ambito titolo canoro
La scena di Sanremo, salvo qualche rilevante eccezione, è stata sempre dominata da volti glabri. Non solo quasi tutti i cantanti maschili vincenti ma anche tutti i conduttori che si sono avvicendati negli anni sul palco dell’Ariston si sono sempre presentati sbarbati al pubblico. Proprio per questo il successo del baffuto Francesco Gabbani – già nel concorso per il Baffo del Mese di Febbraio 2017 – che lo scorso sabato nell’ultima serata della 67ª edizione del Festival è riuscito a vincere con il brano Occidentali’s Karma, acquista una certa rilevanza nella nostra irsuta ottica.
Dopo aver fatto fuori lo splendido baffo e pizzetto brizzolato del maestro d’orchestra Peppe Vessicchio temevamo che anche in questa edizione l’ennesimo volto glabro sarebbe riuscito a conquistare il successo anche se la fiaccola lanuginosa della speranza rimaneva accesa trovando, nella giuria degli esperti, due baffoni di un certo spessore come Giorgio Moroder e Paolo Genovese. Un baffo puro, classico, vero e decisamente italiano quello del nuovo “re” di Sanremo che non può non richiamare alla memoria il celebre baffo a fiammifero di Domenico Modugno vincitore di ben quattro dei primi 16 Festival della canzone italiana con i brani Nel blu dipinto di blu del 1958, Piove (Ciao ciao bambina) del 1959, Addio… Addio del 1962 e Dio come ti amo del 1966.
Dopo Modugno nel 1966, bisognava attendere il 1978 per rivedere il successo di altri baffoni, quelli dei Matia Bazar rappresentati dall’allora baffutissimo chitarrista Carlo Marrale e dal tastierista e cantante Piero Cassano (all’epoca del successo dotato in verità di barba e baffi ma oggi fiero alfiere del baffo accompagnato da pizzetto), che con il brano E dirsi ciao riuscirono a trionfare nella 28ª edizione del Festival.
Nel 1985 Franco Gatti dei Ricchi e Poveri riportò in auge il baffo sull’Ariston grazie al successo del suo gruppo con la canzone Se m’innamoro.
A testimoniare quanto il Festival sia stato in qualche modo nemico dei baffi in alcune particolari edizioni e sotto alcune direzioni artistiche c’è Umberto Tozzi, fiero ambasciatore del baffo nella musica italiana che nel 1987, quando in compagnia dei glabri Gianni Morandi ed Enrico Ruggeri presentò la canzone Si può dare di più (brano che vinse l’edizione di quell’anno), pensò bene di dare una bella accorciata al suo apparato barbabaffuto (difficile dire tuttavia quali fattori influenzarono tale scelta, se poi non si trattò di un semplice evento casuale).
Nel 1997, Fabio Ricci dei Jalisse con il suo ottimo baffo e pizzetto circolare diede un nuovo impulso alla tradizione mustacchiuta del festival trionfando in duo con Alessandra Drusian e la canzone Fiumi di Parole.
Un’irsuta meteora considerando che bisognerà attendere il 2013 per vedere Marco Mengoni rilanciare la cultura del mustacchio a Sanremo vincendo con l’Essenziale in una prova baffuta a nostro modesto parere appena sufficiente sotto l’aspetto stilistico e certamente surclassata dalla recente prova di Gabbani che, nonostante un completo francamente discutibile indossato nell’ultima serata, è riuscito a riportare in auge la tradizione italica dei baffi. Escludiamo dalla lista i baffetti puerili di Ignazio Boschetto che deve ancora dimostrare veramente il suo attaccamento al tappetino di pelo sopra labiale che madre natura ha donato lui.
Lo stesso Gabbani, quasi a voler rafforzare la sua lanuginosa prova, si è presentato sul palco accompagnato da un ballerino travestito da gorilla, e lui stesso ha indossato in una serata il medesimo costume da primate che in qualche maniera sembrava richiamare gli istinti irsuti della nostra specie e che soprattutto nell’ultimo decennio stanno quasi scomparendo colpiti delle recenti manie igieniste fomentate dall’industria della rasatura.
Ci piace pensare che il testo stesso di Occidentali’s Karma inviti tra le righe a prendere distanza dalle nuove mode invitando l’uomo a riscoprire il suo lato ferino e più genuinamente arcaico in una società che quasi divinizza l’ambiguità e lo stravolgimento dei ruoli sessuali.