Alcune ipotesi sulle radicali scelte estetiche del capo del fascismo tra lamette americane, mustacchi dannunziani e calvizie incipiente
Nel primo periodo della sua carriera politica Benito Mussolini era un portatore sano di baffi. Negli anni della formazione e della militanza socialista il futuro Duce, fino alla svolta interventista del 1914 quando, dimessosi dall’Avanti ed espulso dal Partito Socialista, creò il Popolo d’Italia ponendo le basi per la sua ascesa politica, aveva un florido mustacchio che ostentava con orgoglio in pubblico mantenendolo sempre ben curato ma senza stravaganti esagerazioni.
La svolta d’immagine per Mussolini fu radicale e venne accentuata dopo l’adunata sansepolcrista e la costituzione dei fasci di combattimento del 23 marzo del 1919 fino alla creazione dell’icona del “Duce glabro” che governerà le sorti d’Italia fino al 1943, e una parte di questa durante la breve parentesi della Repubblica Sociale. Nel corso del primo conflitto mondiale, al quale Mussolini partecipò assegnato ai bersaglieri, il futuro Duce d’Italia alternò classici baffi da tenentino, in voga all’epoca nel regio esercito, a un look sbarbato, probabilmente per esigenze pratiche al fronte e chissà forse anche già vagheggiando una testa completamente priva di escrescenze pilifere.
Riassumendo il Mussolini dell’età giovanile aveva i baffi mentre quello della maturità politica era totalmente sbarbato e rasato in testa. Difficile dire con certezza cosa abbia spinto il personaggio a un tale radicale cambio di stile, di seguito riportiamo alcune nostre teorie sull’argomento.
Un fascio di lamette per il Duce
Nel libro di Carlo Masi, Viva l’Italia, viene riportata la seguente dichiarazione rilasciata da Benito Mussolini all’Associated Press americana nel 1926: “Sono contrario alla barba. Il fascismo è contro la barba. La barba è segno di decadenza, la barba viene di moda con l’incipiente declino della gloria imperiale. Il fascismo fu la giovinezza dei visi sbarbati di fresco. Io devo usare una lama ogni volta che mi rado perché non esistono ancora lamette capaci di resistere a più di una rasatura della mia barba. La migliore, per ora, è la Gillette“.
Se la prima parte del discorso del Duce rientra perfettamente nell’ottica propagandistica del fascismo che aveva da poco adottato come inno stesso del partito un’ode alla gioventù eroica sulle note di un più antico canto goliardico universitario riadattato dagli Arditi della Iª guerra mondiale, la seconda parte, in cui si accenna al “superirsutismo” del duce e alla resistenza delle lamette da barba elogiando un noto marchio internazionale della rasatura, stride con l’economia complessiva del discorso tanto da sembrare quasi uno spot pubblicitario.
Che il Duce avesse preso all’epoca dei soldi per fare da testimonial alla Gilette?
Suona davvero strano pensare ad un’eventualità del genere ma alcuni fattori potrebbero indurre a pensare ad una qualche forma di finanziamento per il regime da parte della società statunitense produttrice di prodotti per la rasatura.
Innanzitutto all’epoca della succitata dichiarazione i rapporti tra Italia e Stati Uniti non erano per nulla tesi e negli USA il modello italiano era studiato e apprezzato tanto che nello stesso periodo le radio americane suonavano canzoni italiane e altre inneggianti al numero uno del governo italiano come quella del 1934 di Cole Porter scritta per il musical Anything Goes e intitolata You’re the top: “You’re the top! You’re a Coolidge dollar. You’re the nimble tread, of the feet of Fred Astaire, You’re Mussolini, You’re Mrs. Sweeney” (la canzone del video è già in una versione dove il nome di Mussolini viene omesso ma il gustoso siparietto baffuto tra Ethel Merman e Bing Crosby ci sembrava pienamente in tema con l’argomento del presente articolo).
A cavallo tra 1925 e 1926 il Popolo d’Italia versava tuttavia in una profonda crisi editoriale. Le tirature del giornale del Duce erano scese sotto le 80.000 copie e le pubblicità scarseggiavano tanto che l’aumento dei passivi portò l’amministrazione del giornale a sospendere l’edizione romana.
Questo fenomeno dovuto all’irregimentazione della stampa nazionale che di fatto tolse mordente al cavallo cartaceo del dittatore, portò con molta probabilità Mussolini a cercare una soluzione per salvare la sua creatura.
Non abbiamo eseguito una ricerca presso l’Archivio di Stato per verificare se nello stesso periodo il Popolo d’Italia accettasse effettivamente pubblicità da società straniere e magari proprio dalla Gillette (saremo pronti a scommetterci una fortuna) ma certamente prima dell’avvento dell’autarchia che di fatto tagliò fuori l’Italia dai mercati internazionali, la grande azienda statunitense cercò di entrare prepotentemente nel mercato italiano, in un paese in forte crescita demografica ed economica, strizzando l’occhio al regime e probabilmente finanziandolo come dimostrano alcune locandine dell’epoca decisamente filofasciste.
Una politica d’acquisizione aggressiva da parte della Gillette che poco si discosta da quella altrettanto veemente dell’Adidas con Cuba e il suo defunto dittatore Fidel Castro…
Qualcuno potrebbe storcere il naso postulando un’incongruenza tra la politica nazionalista del Duce e l’ipotetica accettazione di fondi esteri.
Si tenga invece presente che da svariate fonti storiche risulta che lo stesso Popolo d’Italia alla sua fondazione (nel 1914) avesse incamerato denaro da finanziatori esteri, oltre che naturalmente da quelli italiani, interessati alla linea interventista di Mussolini nel I° conflitto mondiale.
Secondo un recente articolo della giornalista Elysa Fazzino, “Mussolini spia degli inglesi per 100 sterline alla settimana“, proposto sul Sole24ore, pare che lo stesso Mussolini ricevesse denaro dell’MI5 (il servizio segreto britannico) per fare propaganda bellica sul suo giornale, circostanza più che probabile anche perché lo stesso Mussolini si era sempre dichiarato a favore dell’intervento italiano.
Tale eventualità è stata confermata anche dallo storico e studioso di società segrete e massoniche Gianfranco Pecoraro che in un suo interessante articolo per Archeomisteri intitolato “Mussolini, il mangiapreti tra socialisti, reduci, e sansepolcristi e… massoni: fino alla nascita del fascismo” ha sottolineato come anche durante la stipulazione dei Patti Lateranensi (sottoscritti nel 1929, quindi in un periodo leggermente successivo rispetto ai precedenti)i Servizi Segreti di Sua Maestà continuasse a finanziare il Duce per spingere il capo del fascismo verso una rappacificazione con i vertici della Chiesa Cattolica.
Vivere ardendo e non rasarsi mai
“Con la barba di Bombacci/ci farem gli spazzolini/per lucidar le scarpe/di Benito Mussolini” cantavano gli squadristi contro il comunista Nicola Bombacci che, ironia della sorte, con il tempo passò su posizioni politiche sempre più vicine al Duce fino a fiancheggiarlo nell’epilogo della Repubblica Sociale Italiana terminato con la tragica fucilazione di Dongo del 1945.
Come Bombacci tra i fedelissimi di Mussolini non erano pochi quelli che portavano fieramente villose barbe e portentosi mustacchi si pensi al barbuto carico pilifero di Emilio De Bono e Italo Balbo e all’altrettanto lanuginoso contraltare baffuto di Michele Bianchi e Cesare Maria De Vecchi i primi quadrumviri della Marcia su Roma.
Il personaggio irsuto che tuttavia forse più di tutti affascinò, influenzò e senz’altro mise in difficoltà il capo del fascismo nella sua ascesa politica fu Gabriele D’Annunzio. Il Vate e il Duce furono in effetti due “carissimi nemici” che crearono a cavallo degli anni 20′ e 30′ una dicotomia fatta d’amore e odio che li portò a volte vicino ad un conflitto aperto, con D’Annunzio che coltivava un non velato senso di vendetta nei confronti di Mussolini dopo che questi aveva rifiutato di appoggiare fattualmente l’esperienza fiumana e Mussolini che viceversa temeva l’appeal del poeta pescarese sulle sue camice nere dell’ala più oltranzista.
Chiuso nel Vittoriale dal Duce, il Vate continuava a ricevere le visite di centinaia di ferventi estimatori che vedevano in lui una possibile alternativa ai vertici dello stato per completare una rivoluzione fascista che rallentava in maniera diametralmente opposta alla rapida ascesa di Mussolini.
Questo dualismo, fiorito alla fine della Iª guerra mondiale quando entrambi cercavano di volgere a loro favore la cosiddetta vittoria mutilata per conquistare consensi e potere politico, era esasperata dal differente stile dei due e particolarmente esacerbata proprio in tema di “gusti pelosi”, capelli e rasatura.
Non è da escludere che Mussolini abbia deciso di abbandonare completamente qualsiasi escrescenza cheratinosa dal volto per differenziarsi dal Vate in quei critici e cruciali momenti che seguirono il termine del I° conflitto.
Proporre una figura completamente glabra e certamente più austera abbandonando qualsiasi velleità pelosa e che si rifacesse nello stile alle tradizioni degli antichi legionari romani significava non solo infondere sicurezza nelle masse spaesate dal trattato di Versailles e dalla crisi economica susseguita alla guerra ma, in quel periodo in cui si creò un vuoto di potere, proporre un’alternativa valida agli “orpelli lanuginosi” di D’Annunzio che nei suoi attributi piliferi rappresentava in qualche maniera un’Italia decadente, ancorata all’ancien régime (anche il re Vittorio Emanuele III curava dei mustacchi seguendo le linee estetiche in voga nell’alta nobiltà dell’epoca) e alle vecchie tradizioni – almeno secondo Mussolini e i fascisti detrattori di D’Annunzio – mentre il Duce voleva proporsi come un’alternativa rivoluzionaria ma al contempo come un pratico e risoluto nocchiere pronto a risolvere i problemi del paese per condurre questo verso una nuova rinascita sui fasti dell’antico e glorioso passato. Così, in qualche maniera, anche il suo aspetto esteriore poteva rappresentare una svolta ideologica.
In quest’ottica pelo-propagandistica e seguendo sulla strada della chiave di lettura manichea di questa faccenda, non è da sottovalutare la forza dirompente del baffone sovversivo di Stalin che dall’Unione Sovietica si proponeva come alternativa internazionale al fascismo.
Non potendo superare il dittatore comunista in fatto di villosità delle proprie appendici mustacchiute – e forse neanche il suo predecesso Lenin che insieme al baffo ostentava spesso un rigoglioso pizzetto ben curato – è probabile che il Duce abbia optato alla fine per la definitiva rasatura impedendo così al leader sovietico di batterlo in questa caratteristica del volto e azzittendo così sul nascere qualsiasi forma di scherno sull’argomento visto che l’ascesa politica dei due dittatori fu sostanzialmente coeva.
La calvizie se ne frega
Diverse testimonianze di persone che hanno avuto a che fare con il Duce in vita hanno affermato che questi fosse un convinto nemico del pelo riprendendo spesso i suoi figli quando ad esempio non avevano la barba ben rasata e redarguendo collaboratori, dipendenti e funzionari in caso di manchevolezze in questo senso o in fatto di igiene personale asserendo che buona presenza e igiene personale fossero testimonianze sicure del progresso di un popolo come ricorda Maria Scicolone nel suo libro “A Tavola con il duce”.
Mussolini si faceva radere tutti i giorni viso e cranio e pare che il suo rasatore ufficiale fosse tal Giuseppe Sciarretta, uomo della sua scorta personale ed ex barbiere. Avendo subito minacce e diversi attentati nel corso della sua carriera politica si comprende bene per quale motivo il Duce dovesse scegliere con attenzione a chi porgere la gola in un momento nel quale si poneva totalmente alla mercé del rasoio del suo tonsore.
Tale “smania” per la rasatura che, come ricordavamo in precedenza, cozza in qualche maniera con gli arditismi pelosi della gioventù mussoliniana, potrebbe anche essere rintracciato semplicemente nell’incipiente calvizie che il Duce dovette affrontare. Dovendo per forza di cose rinunciare ai capelli il capo del fascismo potrebbe aver deciso infine di eliminare anche i peli del viso accantonando i rigogliosi baffi della gioventù.
Del resto solo chi si è dovuto arrendere alla calvizie sa quanto possa essere doloroso questo passaggio e Mussolini, grande tombeur de femmes e amatore appassionato del gentil sesso, forse più di altri deve aver sofferto questa privazione.
Madre Natura nella sua logica di compensazione “punisce” gli uomini meglio forniti di testosterone rendendoli in qualche maniera “meno attraenti” agli occhi delle donne. Chissà se Mussolini, per ripicca contro gli spiriti che equilibrano questa realtà, non abbia deciso alla fine di privarsi del suo irsuto baffo italico, come se questo lanuginoso ammiraglio del viso dovesse seguire la sorte dell’affondamento tricotico del cranio del Duce in un’ultima eroica resistenza contro le incontrastabili dinamiche della genetica.
Nonostante le teorie elencate in precedenza non è purtroppo possibile affermare con certezza quale possa essere stato il motivo dell’abbandono definitivo dei baffi da parte del Duce.
Con molta probabilità alcuni dei motivi elencati in precedenza potrebbero aver spinto Mussolini verso questa dolorosa decisione. Difficile ipotizzare in ogni caso che si sia trattato di una scelta casuale e non ponderata considerando l’attenzione maniacale che il Duce prestava alla sua immagine. Di fatto privarsi dei baffi in un momento storico dove il mustacchio era sinonimo di mascolinità deve essere stata una scelta coraggiosa per un uomo che ambiva a tenere le redini del paese. Probabilmente ciò accadde un po’ per motivi pubblicitari, un po’ per la contrapposizione politica con D’Annunzio e un po’ per ragioni propagandistiche che alla fine portarono il Duce ad optare per il suo “look glabro” che ormai è associato indissolubilmente all’immagine del dittatore al pari dei baffetti a spazzolino di Hitler e del mustacchione paffuto di Stalin.
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