I volti pelosi dell’illegalità, dal “fiammifero” di Dillinger ai peli ribelli di Vallanzaska sino ai mustacchi e mosca di Liboni
Prima dello sdoganamento “ufficiale” di Umberto I, i baffi in Italia erano spesso associati alla malavita. Non è un caso che Manzoni nei Promessi Sposi fornisse gli sgherri di Don Rodrigo di “lunghi mustacchi arricciati” e che Cesare Lombroso, luminare italiano della fisiognomica, ne L’uomo delinquente sostenesse che i criminali avessero “tratti fisici tipici dei popoli primitivi e dei selvaggi” (riferendosi a barba e baffi incolti). Del resto gli attributi piliferi del volto hanno sempre caratterizzato le associazioni criminali, si pensi ai baffi a punta dei guappi della Camorra (tornati in auge da qualche anno come segno distintivo dei capi e degli affiliati della nuova Camorra) ma anche in Cosa Nostra i baffi hanno avuto il loro peso e in alcuni periodi sono stati uno dei segni di riconoscimento dei picciotti. Lo stesso discorso potrebbe essere riportato anche alla ‘Ndrangheta benché nell’associazione criminale calabrese non sussista una vera e propria codificazione del fenomeno. Grovigli selvosi usati dunque come segno distintivo ma anche come sistema di dissimulazione della naturale fisionomia del viso. Nell’immaginario collettivo pirati, filibustieri e fuorilegge hanno sempre portato barba e baffi e del resto anche nel banditismo italiano e corso (l’argomento meriterebbe una trattazione separata) la peluria sopralabiale è stata un segno di distinzione. Riassumendo i baffi in qualche maniera possono dunque essere associati alla ribellione ai dogmi della società civile e in qualche modo rappresentano una forma di rivolta contro le leggi dello stato. Di seguito la nostra irsuta e pericolosa top 10 del crimine…
Renato Vallanzasca
“C’è chi nasce sbirro, io sono nato ladro”. In questa frase tutta la vita di Renato Vallanzasca il noto bandito milanese, capo della banda della Comasina che terrorizzò la Lombardia a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Nato del quartiere di Lambrate a Milano il 4 maggio del 1950, il Bel Renè così rinominato dalla stampa per il suo fascino fuorilegge, oltre ad avere alle spalle una carriera di furti, rapine e rapimenti, insieme ad una serie di rocambolesche evasioni dopo la sua prima cattura avvenuta nel 1972, ha sempre issato orgogliosamente un bel paio di baffi ribelli che hanno fatto girare la testa di parecchie groupies contribuendo ad alimentare il mito di questo bandito della vecchia scuola conforme alle ferree regole della Ligera (la mala milanese).
Su di lui sono stati scritti libri e sono stati girati diversi film tra i quali l’ultimo, a nostro avviso bellissimo, Vallanzasca, gli angeli del male diretto da Michele Placido e interpretato da un eccellente Kim Rossi Stuart che veste i panni del bandito milanese (vedi video sopra).
Luciano Lutring
Altro milanese dalla carriera criminale colorita ma meno altisonante di quella di Vallanzasca. Luciano Lutring nato nella città meneghina il 30 dicembre del 1937 è una leggenda della mala milanese. Una sorta di Arsenio Lupin in salsa italiana che effettuava le sue rapine nascondendo un mitra all’interno di una cassa di un violino e per questo dalla stampa venne rinominato il solista del mitra. Centinaia i colpi tra il nord Italia e la Francia dove fu arrestato nel il 1° settembre del 1965. Graziato dall’allora presidente della repubblica francese Georges Pompidou, quello che un tempo fu “il nemico pubblico numero uno” dell’Interpol, tornato in Italia divenne un apprezzato pittore e scrittore fino alla morte del 13 maggio del 1975. La figura di Lutring è caratterizzata da vistosi baffoni spioventi nero pece che hanno reso ancora più affascinante l’immagine di questo ladro gentiluomo.
Giuseppe Magliolo
Dopo la “Milano calibro 9” sembra doveroso citare anche la “mala Roma”. Giuseppe Magliolo fu uno degli esponenti di punta della Banda della Magliana soprannominato il Killer. Nato nella capitale nel 1948 crebbe sotto l’ala protettiva del boss Nicolino Selis e salì presto d’importanza negli ambienti malavitosi romani. Venne freddato a Ostia, la sera del 24 novembre. Nelle foto segnaletiche della polizia mostra un baffo a ferro di cavallo ben delineato tipico degli anni ’70 che avrà senz’altro contribuito a rendere al tempo la sua figura ancora più temibile e minacciosa.
John Dillinger
I baffi criminali a fiammifero di John Dillinger (Indianapolis, 22 giugno 1903 -Chicago, 22 luglio 1934) hanno imperversato negli Stati Uniti a cavallo tra gli anni ’20 e ’30. La carriera criminale del nemico pubblico n.1, termine coniato da J. Edgar Hoover al tempo direttore dell’FBI, cominciò presto. A 21 anni, il 6 settembre del 1924 il giovane Dillinger rapinò una drogheria di Mooresville vicino alla sua abitazione nell’Indiana. Arrestato poco dopo e liberato per intercessione della matrigna seguitò nella via della criminalità con un’escalation che lo portò a diventare il capo di una banda di criminali che rapinava banche e uffici postali in tutti gli Stati Uniti. Divenne popolare come moderno Robin Hood perchè al termine dei colpi, immedesimandosi perfettamente in quegli anni di grave crisi economica, prese l’abitudine di dare alle fiamme i registri contabili con i debiti e le ipoteche delle persone in difficoltà economiche. Grazie a questi gesti, nel periodo della grande depressione, si fece amare dalla gente comune e divenne rapidamente simpatico all’opinione pubblica. Famoso per la sua eleganza era descritto dalle vittime dei suoi furti sempre vestito con abiti di alta sartoria e l’immancabile borsalino, tipico copricapo di quegli anni ruggenti. Romantica anche la storia collegata con la sua morte datata 22 luglio del 1934. Il fuorilegge 31enne fu ucciso all’esterno di un cinema di Chicago, dal quale usciva assieme a due prostitute dopo aver assistito alla proiezione di Manhattan Melodrama film poliziesco di Gangster con Clark Gable. Pare che in quel fatidico 22 luglio fosse stato colpito a tradimento dai proiettili di alcuni agenti dell’FBI timorosi di affrontare faccia a faccia Dillinger per un’eventuale reazione del bandito.
Ilich Ramírez Sánchez
Trafficante d’armi, rivoluzionario, spia, mercenario, assassino: i mille volti di Ilich Ramírez Sánchez conosciuto dai più con il nome di Carlos o il soprannome di sciacallo attribuitogli negli anni ’70 dalla stampa. Sfaccettature caratterizzate da un inquietante baffo a fiammifero che contribuisce ad ammantare di mistero questo personaggio poliedrico resosi responsabile di diverse omicidi a fianco di gruppi reazionari di estrema sinistra con la sua banda Separat. Il bandito venezuelano oggi 66enne che sconta una condanna all’ergastolo nelle carceri francesi, è stato anche implicato nelle indagini sulla strage di Bologna quando qualche anno fa l’ex Presidente della Repubblica italiana Francesco Cossiga lo associò al tragico evento affermando un suo coinvolgimento con il fronte della liberazione della Palestina, FPLP.
Jacques René Mesrine
Uno dei banditi più popolari di tutta la Francia. Autore di numerose rapine, rapimenti e rocambolesche fughe da carceri francesi e canadesi ha sempre issato con orgoglio un folto baffo classico (quando non doveva radersi per esigenze di camuffamento). Nato a Clichy la Garenne il 28 dicembre del 1936 la sua carriera criminale inizia dopo un periodo da paracadutista nella guerra d’Algeria dove pare venne segnato profondamente dai compiti di esecuzioni sommarie a cui venne sottoposto. Su di lui sono stati scritti diversi libri e sono state girate diverse pellicole. Criminale affascinante con i suoi baffi da fuorilegge ha avuto diverse amanti in giro per il mondo. Una vita vissuta sul filo del rasoio, quasi sempre accuratamente tenuto a distanza dai barbigi, il gentiluomo della mala francese fu ucciso a Parigi il 2 novembre del 1979 e la sua morte provocata da diversi colpi d’arma da fuoco esplosi dai reparti speciali della polizia parigina suscitò numerose polemiche per la natura dell’ingaggio che somigliò quasi ad un’esecuzione.
Pablo Escobar
Foltissimo baffo classico anche per Pablo Escobar (Rionegro, 1 dicembre 1949-Medellin, 2 dicembre 1993) fondatore del cartello della droga di Medellin. Il colombiano a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 costruì un florido impero criminale basato sul narcotraffico che gli fruttò un patrimonio stimato intorno ai 30 miliardi di dollari. Conosciuto come Il Re della Cocaina, guadagnò influenza e potere incalcolabili nel proprio paese tanto da arrivare ai vertici della politica colombiana venendo eletto come deputato nel 1982. La sua struttura criminale basava il proprio potere sulla corruzione con una filosofia sintetizzabile con la frase “plata o plomo” (soldi o piombo, in pratica o ti fai corrompere e chiudi un occhio o muori). Braccato dalla DEA per traffico internazionale di stupefacenti si costituì evitando l’estradizione negli Stati Uniti e si costruì una prigione privata di lusso denominata La Catedral. Dopo un periodo di prigionia dorata, evase nel luglio del 1992 e il 2 dicembre del 1993, all’età di 44 anni, venne intercettato e ucciso dai reparti speciali della polizia aiutati dai servizi di intelligence statunitensi in un quartiere borghese di Medellin. Il personaggio è tuttora oggetto di venerazione a livello popolare avendo distribuito parte dei suoi guadagni illeciti ai poveri, una sorta di “Robin Hood” sudamericano e una figura senz’altro controversa sulla quale si è scritto tanto e sono stati girati diversi film e anche una serie a puntate, Narcos, dove viene magistralmente interpretato da Wagner Moura.
Tommaso Buscetta
Tommaso Buscetta (Palermo, 13 luglio 1928-New York, 2 aprile 2000) è forse il pentito forse più famoso di Cosa Nostra e ha mostrato orgogliosamente per lunghi periodi della sua vita dei curatissimi baffi a fiammifero. Figura chiave del maxi processo di Palermo contro la mafia siciliana, fu il primo Boss a collaboratore con la giustizia e le sue dichiarazioni rilasciate ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, rivelarono per la prima volta le complesse strutture e l’organizzazione delle famiglie mafiose. Conosciuto anche come il Boss dei due mondi, per le sue attività criminale sviluppate sia in Sicilia che negli Stati Uniti e in Sud America, con le sue dichiarazioni aiutò anche l’FBI nel processo Pizza Connection che si celebrò a New York contro Cosa Nostra statunitense. Trasferitosi negli Stati Uniti con una nuova identità, morì di tumore nel 2000 all’età di 72 anni.
Giuseppe Calò detto Pippo
E’ un mafioso legato a Cosa Nostra i cui baffi hanno segnato profondamente la storia criminale d’Italia. Fu il cassiere della Cupola perchè legato ai traffici finanziari dell’organizzazione e al riciclaggio di denaro. Nato il 30 settembre del 1931 si fece una fama come delinquente comune e nel 1969 dopo l’affiliazione divenne il boss della cosca di Porta Nuova. Alleato degli altri boss Luciano Leggio e Salvatore Riina, fu coinvolto in diverse azioni criminali come mandante ed esecutore materiale. Legato con gli ambienti malavitosi romani si trasferì nella capitale dove intesse una fitta trama di contatti con la Banda della Magliana e alcuni esponenti dei servizi deviati e controllò da vicino alcuni politici collusi con le cosche siciliane. Venne arrestato il 30 marzo del 1985 in via Tito Livio a Roma nel quartiere Balduina. Al Maxiprocesso di Palermo l’anno seguente fu accusato di associazione mafiosa, riciclaggio di denaro e della strage del Rapido 904 e venne condannato a due ergastoli. Nel libro, nel film e nella serie di Romanzo Criminale scritti da Massimo Di Cataldo il suo personaggio ha ispirato la figura di zio Carlo.
Luciano Liboni
Chiudiamo la carrellata di baffuti criminali con dei mustacchi e mosca che hanno tenuto con il fiato sospeso l’Italia nell’estate del 2004. Luciano Liboni (Montefalco 6 maggio 1957 – Roma 31 luglio 2004) fu un irsuto bandito che si rese protagonista di una disperata e rocambolesca fuga nell’Italia centrale dopo aver ucciso un appuntato dei carabinieri. La carriera criminale del fuorilegge umbro è costellata di reati. Specializzato nel furto d’opere d’arte e nelle rapine alle poste, per sfuggire alla polizia usava nascondersi in luoghi selvatici difficili da raggiungere e per questo venne rinominato dalla stampa come il Lupo o il Cinghiale. Quando il 21 luglio del 2004 a Pereto di Sant’Agata Feltria l’appuntato Alessandro Giorgioni gli chiese di mostrargli i documenti, Liboni che era già latitante dal 2002, non esitò a sparare colpendo a morte il carabiniere. Fuggito con una moto rubata, riparò a Roma e la polizia mise in piedi un’imponente caccia all’uomo che portò al riconoscimento e in seguito all’uccisione dell’uomo a Roma dopo una sparatoria al Circo Massimo. Nelle settimane successive alla sua morte in diverse parti d’Italia comparirono diverse scritte sui muri in suo onore “Un mercoledì da Liboni” “Meno spioni più Liboni” etc.
La sua figura ha ispirato diverse canzoni, e anche un film (Il Lupo di Stefano Calvagna) ed ha destato un certo interesse per il carattere indomito del personaggio che non si volle arrendere alle forze dell’ordine neanche in punto di morte tanto che dopo essere stato ridotto in fin di vita dalla polizia, ammanettato e trasportato dai barellieri in ospedale, cercò fino all’ultimo di recuperare la sua pistola e si dimenò nell’ambulanza per liberarsi dal giogo al quale era stato costretto.
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